Disabili e sport, gli ostacoli quotidiani

Disabili e sport, gli ostacoli quotidiani

Dietro alle lacrime di Zanardi e il grido di Bebe Vio ci sono migliaia di disabili. Che praticano sport tra difficoltà e pregiudizi.

di Francesca Buonfiglioli

  1. P. ha nove anni ed è nato con una sofferenza cerebrale che gli ha provocato epilessia e ritardo cognitivo.
    Dopo le riabilitazioni in piscina e l’ippoterapia, da poche settimane ha cominciato a giocare a calcio. E gli piace.
    «Va agli allenamenti volentieri», racconta la mamma, «gioca con altri bambini, non è solo una terapia».
    «UN TRAGUARDO GRANDIOSO».Castel San Pietro, provincia di Bologna. Qui da qualche mese è nata la Scuola Calcio Integrata Aiac Renzo Cerè. «Lo sport aiuta tantissimo questi ragazzi con disabilità intellettiva», spiega il presidente Davide Bucci che ha ‘reclutato’ allenatori e psicologi come Elenia Poli. «Lanciare la palla a un compagno significa comunicare con lui», ha sottolineato la dottoressa presentando il progetto. «Per loro è difficilissimo già far parte di un gruppo, imparare ad accogliere la palla è un traguardo grandioso».
    Una bella storia che arriva dalla provincia, proprio dove praticare uno sport per un disabile è più difficile.

Calamai: «I disabili chiedono solo un amico con cui giocare»

Calato il sipario sulle Paralimpiadi, sul grido di gioia emozionante di Bebe Vio e sulle lacrime di Alex Zanardi, il rischio è che si dimentichino le difficoltà quotidiane che migliaia di ragazzi con un handicap devono affrontare per fare sport.
«Soprattutto quelli che non parteciperanno mai a una Paralimpiade o a un campionato», dice aLettera43.it Marco Calamai che dopo aver allenato squadre di basket in serie A, una ventina di anni fa anni ha cominciato a insegnare ai ragazzi con disabilità, mettendo insieme sullo stesso playground disabili e normodotati.
PIONIERE DELLE SQUADRE INTEGRATE. «Mi guardavano come se fossi pazzo», racconta. «In realtà avevo solo ascoltato le loro richieste: giocare con un amico più bravo o che nelle difficoltà ti sa sostenere».
Giocare con un amico. Nulla di meno e nulla di più.
«In campo servono un allenatore e qualche amico, non un terapeuta», insiste Calamai – tra le altre cose titolare di master universitari proprio su disabilità e sport – che vorrebbe una sola Olimpiade, per normodotati e disabili.
«LO SPORT NON DEVE ESSERE TERAPIA». Il problema è che siamo ancora imprigionati nei luoghi comuni. «Se ormai c’è consapevolezza dell’esistenza dei disabili», spiega il coach, «resiste ancora l’idea che abbiano sì diritto di fare sport ma come terapia. Occorre un salto di qualità. Questi ragazzi, esattamente come tutti gli altri, hanno diritto di fare sport per divertirsi. Se poi l’attività li aiuta e li fa stare meglio ben venga. Ma il fine non deve essere quello».
Oltre alle barriere architettoniche, sono queste barriere culturali che vanno abbattute: «Campioni come Zanardi sono esempi che trasmettono una grande forza. Dovrebbero parlare nelle scuole, ai ragazzi. Ma dobbiamo pensare al 99% di coloro che vorrebbero gareggiare a livello internazionale e che non potranno farlo mai perché banalmente non abbastanza bravi. La politica deve lavorare concretamente per loro».
INCARTATI NELLA TERMINOLOGIA. Invece finora ci siamo incartati nella terminologia.
Il passaggio da ‘handicappato’ a ‘disabile’ fino a ‘diversamente abile’ è stato letto come una conquista. «Ma i miei disabili», continua Calamai, «mi dicono che a loro non importa nulla di come li si chiami: oggettivamente sono handicappati. Chiedono solo di poter limitare le loro difficoltà».
E dire che la nostra legge, spiega ancora il coach, è una delle più avanzate in Europa: «Poi però spesso i ragazzi disabili restano fuori dalle classi, non partecipano alle attività, e gli insegnanti di sostegno non sono sempre preparati come dovrebbero».
UNA QUESTIONE DI ELASTICITÀ. La ricetta per una vera ‘integrazione’, anche se la parola come sempre è stata già superata da una più politically correct ‘inclusione’, è facile e a costo zero.
«La diversità è un valore», sottolinea Calamai. «Basterebbe un’ora alla settimana in cui ognuno possa fare quello in cui è più forte: sai suonare ma non sai fare di conto? Suona. Sai recitare? Recita. I compagni di classe li guarderebbero come fenomeni. Il problema è che servono elasticità e rispetto».
E come sempre servono investimenti.bebe-vio

image_pdfimage_print